V.

IL «DISCORSO DI UN ITALIANO INTORNO ALLA POESIA ROMANTICA» E LE CANZONI PATRIOTTICHE

Prima di passare a parlare delle canzoni patriottiche occorre però, nello sviluppo delle posizioni leopardiane, riferirsi al Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, steso nel marzo del 1818[1], dopo un primo abbozzo nello Zibaldone (quello Zibaldone che comincia a fermare pensieri e appunti proprio tra la fine del ’17 e il ’18 in un periodo cosí importante per l’entrata in azione di tutte le forme espressive e meditative della personalità leopardiana).

Il Discorso riprende, a nuovo livello di maturità e di complessità, le posizioni brevemente esposte nella lettera ai compilatori della Biblioteca Italiana del 1816, in cui il Leopardi difendeva il classicismo, la poesia antica e la poesia che ne riprendeva la tradizione, soprattutto come vicinanza piú autentica alla natura nella sua schiettezza, semplicità, ricchezza di sensazioni e di vitalità. Già nei primi appunti dello Zibaldone, il Leopardi insisteva coerentemente sulla poesia come profonda e diretta imitazione della natura[2] (non come ricerca del solo “bello” che condurrebbe alla “perfezione metafisica” e dunque a posizioni del neoclassicismo col suo culto della bellezza ideale e astratta[3] da cui egli era nettamente lontano) e rifiutava il minuto descrittivismo di Ovidio in nome di un sentimento piú complesso della realtà naturale e delle sue suggestioni profonde, e soprattutto enucleava quello schema di opposizione fra natura e ragione, fra illusioni e gretto razionalismo[4] che (con i suoi appoggi rousseauiani, alfieriani, wertheriani e ortisiani), mentre costituisce la spina dorsale di un atteggiamento di pensiero valido sino alla frattura delle Operette morali, riconfluisce poi in un sentimento della poesia legata alla natura e alle illusioni. Sentimento che è alla base dello stesso intervento del Leopardi nella polemica classico-romantica e dà al suo classicismo un carattere cosí originale e personale, diversissimo dalle posizioni medie, pedantesche e puramente tradizionalistiche, regolistiche, conservatrici, di tanti altri difensori del classicismo, da cui il poeta si distingue anche per l’estrema serietà con cui discute le idee dei romantici e soprattutto del Di Breme[5] (ben lungi dai modi pettegoli e angusti di tanti polemisti classicistici).

Il classicismo leopardiano, in realtà ben superiore a quello piú comune degli altri classicisti, è animato dalla coscienza di aver già superato le posizioni puramente archeologiche, regolistiche, di rigida imitazione dei classici e di uso pedantesco della mitologia contro cui i romantici potevano avere troppo facile giuoco. Come il Leopardi chiaramente avverte in un passo importante del Discorso, in cui egli accusa i romantici di svolgere in parte una battaglia inutile e arretrata contro pregiudizi che il migliore classicismo, ed evidentemente soprattutto il suo personale classicismo, avevano già superato:

[...] non solamente l’abuso delle favole greche, non solamente le oscenità e le brutture, ma l’uso o smoderato o soltanto non parco, si sconsiglia e biasima e rigetta da qualunque de’ nostri ha senno e sapere; perché noi non vogliamo che il poeta imiti altri poeti, ma la natura, né che vada accattando e cucendo insieme ritagli di roba altrui; non vogliamo che il poeta non sia poeta; vogliamo che pensi e immagini e trovi, vogliamo ch’avvampi, ch’abbia mente divina, che abbia impeto e forza e grandezza di affetti e di pensieri, vogliamo che i poeti dell’età presente e delle passate e avvenire sieno simili quanto è forza che sieno gl’imitatori di una sola e stessa natura, ma diversi quanto conviene agl’imitatori di una natura infinitamente varia e doviziosa. L’osservanza cieca e servile delle regole e dei precetti, l’imitazione esangue e sofistica, in somma la schiavitú e l’ignavia del poeta, sono queste le cose che noi vogliamo? sono queste le cose che si vedono e s’ammirano in Dante nel Petrarca nell’Ariosto nel Tasso? [...] Che secolo è questo? a che si grida e si strepita? [...] Non hanno insegnato i romantici al Parini che si aprisse una nuova strada, al Metastasio e all’Alfieri che non somigliassero il Rucellai lo Speroni il Giraldi il Gravina, al Monti che non imitasse Dante ma l’emulasse. Sappiano i nuovi filosofi che oramai lo scagliarsi contro i pedanti è verissima e formale pedanteria [...].[6]

D’altra parte, attraverso le sue meditazioni sulla natura e il sentimento alto dell’arte che deve ricondurre alla natura, il Leopardi discuteva con i romantici a un livello ben diverso da quello di tanti piccoli classicisti, a un livello che accettava l’appello romantico alla natura e lo superava con un piú alto senso dello stile e dell’arte necessari a raggiungere una piú sicura schiettezza, semplicità, naturalezza. Come egli dice in quell’abbozzo del discorso, nello Zibaldone, che in certi punti integra lo stesso discorso e risulta anche piú incisivo e chiaro:

[...] chi sente e vuol esprimere i moti del suo cuore ec. l’ultima cosa a cui arriva è la semplicità e la naturalezza, e la prima cosa è l’artifizio e l’affettazione, e chi non ha studiato e non ha letto, e insomma come costoro dicono è immune dai pregiudizi dell’arte, è innocente ec. non iscrive mica con semplicità, ma tutto all’opposto: e lo vediamo nei fanciulli che per le prime volte si mettono a comporre: non iscrivono mica con semplicità e naturalezza, che se questo fosse, i migliori scritti sarebbero quelli dei fanciulli: ma per contrario non ci si vede altro che esagerazioni e affettazioni e ricercatezze benché grossolane, e quella semplicità che v’è, non è semplicità ma fanciullaggine [...] Onde il fine dell’arte che costoro riprovano non è mica l’arte, ma la natura; e il sommo dell’arte è la naturalezza e il nasconder l’arte, che i principianti o gl’ignoranti non sanno nascondere, benché n’hanno pochissima, ma quella pochissima trasparisce, e tanto fa piú stomaco quanto è piú rozza: e i nove anni d’Orazio dei quali il Breme si fa beffe, non sono mica per accrescer gli artifizi del componimento, ma per diminuirli, o meglio, per celarli accrescendoli, e insomma per avvicinarsi sempre piú alla natura, che è il fine di tutti quegli studi e di quelle emendazioni ec. di cui il Breme si burla, di cui si burlano i romantici, contraddicendo a se stessi; che mentre bestemmiano l’arte e predicano la natura, non s’accorgono che la minor arte è minor natura. [20-21][7]

Donde consegue nel Discorso la persistente accusa alla sciatteria stilistica dei romantici, al loro mimetismo descrittivistico, all’uso di forme onomatopeiche (il trap trap per il trotto dei cavalli o il tin tin per il suono di un campanello, adoperati dal Berchet nella versione delle ballate del Bürger dentro la Lettera semiseria). Mentre, alla luce del suo schema del contrasto natura-ragione, il Leopardi accusava i romantici di un’altra grossa contraddizione; anche essi parlavano di natura, ma in realtà avrebbero allontanato la poesia dalla sensibilità per portarla a farsi metafisica e intellettualistica, poesia di civilizzazione e di ragione invece che di natura:

Già è cosa manifesta e notissima che i romantici si sforzano di sviare il piú che possono la poesia dal commercio coi sensi, per li quali è nata e vivrà finattantoché sarà poesia, e di farla praticare coll’intelletto e strascinarla dal visibile all’invisibile e dalle cose alle idee, e trasmutarla di materiale e fantastica e corporale che era, in metafisica e ragionevole e spirituale.[8]

La poesia romantica diventa cosí per Leopardi poesia della civilizzazione, della ragione, non della natura, come era invece quella dei classici e come può essere quella di poeti contemporanei che sappiano riavvicinarsi, come gli antichi, e con l’arte, alla natura che parla ancora negli animi dei contemporanei, specie attraverso la somiglianza fra la condizione degli antichi e quella dei fanciulli, riserva per noi moderni di una disposizione poetica e di motivi poetici sempre attingibili attraverso il ricordo. E a quella zona beata e immaginosa dell’infanzia, il Leopardi dedica nel Discorso una pagina di singolare andamento poetico e piena di motivi attivi nella formazione della poesia leopardiana futura:

[...] quello che furono gli antichi, siamo stati noi tutti, e quello che fu il mondo per qualche secolo, siamo stati noi per qualche anno, dico fanciulli e partecipi di quella ignoranza e di quei timori e di quei diletti e di quelle credenze e di quella sterminata operazione della fantasia; quando il tuono e il vento e il sole e gli astri e gli animali e le piante e le mura de’ nostri alberghi, ogni cosa ci appariva o amica o nemica nostra, indifferente nessuna, insensata nessuna; quando ciascun oggetto che vedevamo ci pareva che in certo modo accennando, quasi mostrasse di volerci favellare; quando in nessun luogo soli, interrogavamo le immagini e le pareti e gli alberi e i fiori e le nuvole, e abbracciavamo sassi e legni, e quasi ingiuriati malmenavamo e quasi beneficati carezzavamo cose incapaci d’ingiuria e di benefizio; quando la maraviglia tanto grata a noi che spessissimo desideriamo di poter credere per poterci maravigliare, continuamente ci possedeva; quando i colori delle cose quando la luce quando le stelle quando il fuoco quando il volo degl’insetti quando il canto degli uccelli quando la chiarezza dei fonti tutto ci era nuovo o disusato, né trascuravamo nessun accidente come ordinario, né sapevamo il perché di nessuna cosa, e ce lo fingevamo a talento nostro, e a talento nostro l’abbellivamo; quando le lagrime erano giornaliere, e le passioni indomite e svegliatissime, né si reprimevano forzatamente e prorompevano arditamente. Ma qual era in quel tempo la fantasia nostra, come spesso e facilmente s’infiammava, come libera e senza freno, impetuosa e istancabile spaziava, come ingrandiva le cose piccole, e ornava le disadorne, e illuminava le oscure, che simulacri vivi e spiranti che sogni beati che vaneggiamenti ineffabili che magie che portenti che paesi ameni che trovati romanzeschi, quanta materia di poesia, quanta ricchezza quanto vigore quant’efficacia quanta commozione quanto diletto. Io stesso mi ricordo di avere nella fanciullezza appreso coll’immaginativa la sensazione d’un suono cosí dolce che tale non s’ode in questo mondo; io mi ricordo d’essermi figurate nella fantasia, guardando alcuni pastori e pecorelle dipinte sul cielo d’una mia stanza, tali bellezze di vita pastorale che se fosse conceduta a noi cosí fatta vita, questa già non sarebbe terra ma paradiso, e albergo non d’uomini ma d’immortali; io senza fallo (non m’imputate a superbia, o Lettori, quello che sto per dire) mi crederei divino poeta se quelle immagini che vidi e quei moti che sentii nella fanciullezza, sapessi e ritrargli al vivo nelle scritture e suscitarli tali e quali in altrui.[9]

Anche nei confronti di un altro grande tema dei Romantici, la popolarità della poesia, il Leopardi pensa di coglierli in contraddizione in quanto essi, rifiutando gli antichi miti, in qualche modo mediati a una certa conoscenza popolare attraverso la lunga tradizione, si rifanno a leggende esotiche del tutto estranee alla coscienza e conoscenza popolare e nazionale (per non dire della netta antipatia del Leopardi per i soggetti tratti dal Medio Evo, un’epoca che egli sempre considerò, in una prospettiva illuministica, come epoca di oscurità e di barbarie da ogni punto di vista).

Infine (accanto a una sottile discussione con la proposta del Di Breme di una poesia in cui la natura parlasse direttamente senza mediazione umana, ciò che al Leopardi appare assurdo in quanto la natura stessa è sempre vista e interpretata dagli uomini) un ultimo grosso motivo campeggia nella trama fitta e folta del Discorso e mostra come il classicismo leopardiano (anche a causa dei modi sentimentali con cui egli aveva tradotto e accentuato tanti testi classici, e della sua educazione su testi preromantici) sia già ricco di premesse romantiche che portano la sua discussione a un singolare livello di istanze ben lontane da quelle del classicismo piú rigido e conservatore.

Il grosso tema è quello della preminenza del patetico come caratteristico dell’epoca moderna. Leopardi accetta la pertinenza del patetico all’epoca moderna, ma oppone ai romantici due obbiezioni. Anzitutto l’affermazione che anche la poesia antica era capace di forme sentimentali e patetiche (tanto piú genuine perché non intellettualisticamente e psicologicamente spiegate) e poi la distinzione fra il patetico degli antichi (e di coloro che ne seguono l’esempio) e quello “sforzato”, “eccessivo”, “feroce” dei romantici che corrisponde anche alla loro volontà di scuotere una sensibilità svogliata e inerte tipica di un’epoca lontana dalle illusioni e dalla natura (quasi con un ritorno a certi caratteri della poesia e della civiltà barocca).

Affermazione appoggiata a vari brani di poesia antica da lui tradotta e distinzione particolarmente espressa in questo passo:

Ora non metterò a confronto la delicatezza la tenerezza la soavità del sentimentale antico e nostro, colla ferocia colla barbarie colla bestialità di quello dei romantici propri. Certamente la morte di una donna amata è un soggetto patetico in guisa ch’io stimo che se un poeta, colto da questa sciagura, e cantandola, non fa piangere, gli convenga disperare di poter mai commuovere i cuori. Ma perché l’amore dev’essere incestuoso? perché la donna trucidata? perché l’amante una cima di scellerato, e per ogni parte mostruosissimo? Troppe parole si potrebbero spendere intorno a questo argomento, stante che l’orridezza è l’uno dei caratteri piú cospicui del sentimentale romantico; ma quanto piú cose ci sarebbero da dire, tanto piú volentieri le tralascio; e sia pur gloria dei romantici, come gridano, l’esser piú dilettati dalla sensibilità dei demonii che degli uomini, e vituperio nostro l’avere tanto o quanto di contraggenio alle bellezze infernali.[10]

La seconda obbiezione riguarda l’errore dei romantici nel ridurre tutta la gamma della poesia imitatrice della natura al solo patetico:

Ma quel ridurre pressoché tutta la poesia ch’è imitatrice della natura, al sentimentale, come se la natura non si potesse imitare altrimenti che in maniera patetica; come se tutte le cose rispetto agli animi nostri fossero sempre patetiche; come se il poeta non fosse piú spinto a poetare da nessuna cosa, eccetto la sensibilità, o per lo meno senza questa; come se non ci fosse piú gioia non ira non passione quasi veruna, non leggiadria né dolcezza né forza né dignità né sublimità di pensieri, non ritrovato né operazione veruna immaginativa senza un colore di malinconico; questa cosa con che nome si deve chiamare? Dunque le cetre dei poeti avranno per l’avvenire una corda sola? e ciaschedun poema assolutamente e tutti rispettivamente saranno unisoni? dunque non ci saranno epopee, non canzoni trionfali, non inni non odi non canti di nessuna sorta se non patetici?[11]

È chiaro che cosí dicendo il Leopardi pensava a quel tipo di lirica patriottica a cui accennava nell’argomento di elegia, del giugno 1818, e su cui si sarebbe impegnato nell’autunno dello stesso anno con le due canzoni patriottiche. Alle quali ci riconduce anche il finale del Discorso in cui egli parla della decadenza italiana («vedo languido e pressoché spento l’amore di questa patria»)[12] e si rivolge ai giovani italiani suoi coetanei con un’enfatica e ardente promessa di dedicare tutta la sua vita alla patria, al suo risorgimento, alla difesa e ripresa della sua gloria letteraria.

Passiamo dunque a parlare delle due canzoni patriottiche scritte (si noti) dopo il breve soggiorno del Giordani a Recanati e dopo i colloqui diretti che avranno certo ulteriormente contribuito a chiarire e rafforzare le idee patriottiche e nazionali del giovane Leopardi.

Per impostare correttamente una interpretazione di queste canzoni occorrerà anzitutto reagire a quei giudizi critici che le considerano come una pura esercitazione accademica e oratoria (caso estremo quello del Vossler)[13], perdendone il senso di attualità storica, la carica di sincera passione patriottica e politica, la volontà del giovane Leopardi di denunciare la situazione di assoluta decadenza della nazione italiana («per te che non esisti piú», aveva detto nell’argomento di elegia nel giugno 1818) e di contrapporre una disperata volontà di reazione a tale decadenza.

Il Leopardi vive effettivamente, come ha ben visto Luigi Blasucci[14], un sentimento profondo e sofferto di delusione storica (l’Italia decaduta e priva di libertà e di indipendenza), rifiutando ormai chiaramente le posizioni dell’orazione Agl’Italiani del 1815, in cui aveva accolto le ingannevoli prospettive della Restaurazione (pur pronunciandovi il suo amore per la patria e per la libertà) e considerando in modo tutto negativo la situazione italiana dell’epoca della Santa Alleanza.

Né inganni il fatto che nelle due canzoni la rovina italiana è collegata alla dominazione francese e napoleonica e a quella campagna di Russia in cui i giovani italiani erano costretti a combattere e morire per una causa non propria e per un tiranno straniero.

Ché tali riferimenti non si collegano piú agli ideali della Restaurazione antinapoleonica, ma a quelle posizioni alfieriane e soprattutto a quelle foscoliane dell’Ortis che configuravano la presenza francese in Italia nei suoi aspetti negativi di dominazione straniera e limitazione delle nuove istanze unitarie e indipendentistiche a cui certo il Leopardi qui si ricollega.

Né si dimentichi una lettera del Leopardi a Pietro Brighenti (21 aprile 1820) in cui, a proposito della seconda canzone, egli scrive:

Quelli che presero in sinistro la mia Canzone sul Dante, fecero male, secondo me, perché le dico espressamente ch’io non la scrissi per dispiacere a queste tali persone, ma parte per amor del puro e semplice vero, e odio delle vane parzialità e prevenzioni; parte perché non potendo nominar quelli che queste persone avrebbero voluto, io metteva in iscena altri attori come per pretesto e figura.[15]

Par chiaro che le persone cui qui si allude sono quei patrioti e liberali che ricordavano gli aspetti positivi del dominio francese in Italia e che «quelli» che il Leopardi non poteva nominare erano i nuovi dominatori stranieri, gli austriaci.

A questa diagnosi desolata ed estrema della situazione italiana il Leopardi (specie nella canzone All’Italia) tenta di contrapporre una disperata estremistica volontà di intervento personale che culmina nella battuta sproporzionata, ma tutt’altro che risibile (come parve al maligno Tommaseo): «L’armi, qua l’armi» (v. 37), la quale poi par rispondere a una pagina foscoliana dell’Ortis in cui Jacopo, disperato sulla sorte dell’Italia, esclamava: «I tuoi confini, o Italia, son questi! ma sono tutto dí sormontati d’ogni parte dalla pertinace avarizia delle nazioni. Ove sono dunque i tuoi figli? Nulla ti manca se non la forza della concordia. Allora io spenderei gloriosamente la mia vita infelice per te: ma che può fare il solo mio braccio e la nuda mia voce?»[16]. Il giovane Leopardi risponde con la sua disperata volontà di intervento: con il suo “braccio” e con la sua poesia.

E che il Leopardi pensasse alla situazione del 1818 lo prova lo stesso titolo dell’abbozzo in prosa delle due canzoni (Sullo stato presente dell’Italia) e lo provano alcuni accenni di un altro abbozzo Dell’educare la gioventú italiana (poi ripreso nella costruzione della canzone Nelle nozze della sorella Paolina alla fine del ’21), in cui dice che «Questo tempo è gravido di avvenimenti» e che la riscossa italiana avrà luogo «in questa generazione che nasce, o mai»[17].

Né dovrà dimenticarsi il fatto che molti dei lettori di queste canzoni le interpretarono appunto in chiave risorgimentale, mentre uomini legati alla Restaurazione, come lo zio del Leopardi, Carlo Antici, esprimevano a lui sorpresa e rammarico di fronte a posizioni cosí disperate e negative nei confronti di una situazione italiana che a loro appariva piena di rosee, felici prospettive.

Chiariti cosí l’effettivo, sincero e profondo sentimento etico-politico leopardiano, la sua prospettiva di attualità, di delusione storica, di disperata volontà, di intervento attivo e combattivo (volontà di intervento che è componente essenziale della personalità leopardiana, del suo agonismo eroico, cosí diverso dall’immagine di un poeta tutto idillico, puramente contemplativo e insensibile alla situazione storica contemporanea), occorrerà ancora ricordare preliminarmente come la costruzione delle due canzoni sia legata anche al proposito leopardiano (piú volte espresso nel dialogo epistolare con il Giordani) di creare una lirica alta, eloquente, monumentale e grandiosa, che rinnovasse la tradizione aperta dalle canzoni civili del Petrarca utilizzando moduli e linguaggi di una linea altamente rettorica e aulica, elevata e solenne (la linea di certa lirica eloquente del Testi, del Chiabrera, del Filicaia, fino al Monti).

E in tale direzione (che faceva parte del piú largo programma leopardiano di rinnovare e creare diversi generi di poesia, modo anche questo di contribuire alla ripresa della vita culturale e letteraria italiana), in tale alta direzione di lirica eloquente riuscí piú facilmente al Leopardi di superare le difficoltà dei suoi precedenti componimenti poetici, le sue incertezze di tono e di linguaggio, prima troppo composito e oscillante fra echi diversi e mal fusi.

Certo in tale direzione il linguaggio leopardiano ha qualcosa spesso di troppo sontuoso, opulento, diverso dalle forme piú sobrie, intime, essenziali della sua poesia piú matura, ha margini di amplificazione rettorica e movimenti piú apertamente oratorii. Ma, pur con tali chiari limiti, esso segue una linea piú univoca, piú compatta, piú organica, piú continua, superando le stonature, i bruschi salti delle poesie precedenti e permettendo una costruzione piú intera, un discorso piú coerente. E gli echi di tanta lirica petrarchesca, testiana, montiana non si staccano dal contesto, non costituiscono macchie vistose e isolate, riassorbendosi piú facilmente nella direzione lirico-eloquente delle canzoni e accordandosi alla spinta interna che piú coerentemente chiede forme ampie, eloquenti, altamente rettoriche, internamente riscaldate da una piú schietta espansione del sentimento appassionato, dolente, volitivo, eroico, affettuoso.

Cosí nella prima strofa della canzone All’Italia[18] si potrà notare che il Leopardi si è ricordato del sonetto del Testi che presentava l’Italia prima del «mondo reina» e ora misera prigioniera, che «Di barbare catene ha ’l collo onusto, / il nudo seno e ’l lacerato busto», e di certe personificazioni montiane dell’Italia[19].

Ma questi echi, attraverso la similarità del linguaggio e della direzione lirico-eloquente, si sono fusi nella invocazione leopardiana all’Italia, che diventa una creatura del sentimento del Leopardi, una persona a cui egli può rivolgere il suo affettuoso e pietoso “tu”, sollecitato anche dalla congenialità del suo stesso sentimento di personale infelicità:

[...] Or fatta inerme,

nuda la fronte e nudo il petto mostri.

Oimè quante ferite,

che lividor, che sangue! oh qual ti veggio,

formosissima donna! Io chiedo al cielo

e al mondo: dite dite;

chi la ridusse a tale? E questo è peggio,

che di catene ha carche ambe le braccia;

sí che sparte le chiome e senza velo

siede in terra negletta e sconsolata,

nascondendo la faccia

tra le ginocchia, e piange. (vv. 6-17)

Nei modi sostenuti ed eloquenti, alimentati da una tradizione cosí evidente, l’Italia risulta però non una statua allegorica e statica, ma, come si è detto, una figura del sentimento leopardiano, che solo in quei modi, in questo periodo, riusciva a esprimersi e consolidarsi.

E proprio nell’uso costante e artisticamente assai finemente elaborato di questi moduli eloquenti e rettorici (invocazioni, interrogazioni, replicazioni, ecc.) il Leopardi riesce a esprimere, nella seconda strofa, un genuino e intenso crescendo che culmina nell’impennata agonistica e volitiva de «L’armi, qua l’armi»:

Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,

mai non potrebbe il pianto

adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;

che fosti donna, or sei povera ancella.

Chi di te parla o scrive,

che, rimembrando il tuo passato vanto,

non dica: già fu grande, or non è quella?

Perché, perché? dov’è la forza antica,

dove l’armi e il valore e la costanza?

Chi ti discinse il brando?

Chi ti tradí? qual arte o qual fatica

o qual tanta possanza

valse a spogliarti il manto e l’auree bende?

Come cadesti o quando

da tanta altezza in cosí basso loco?

Nessun pugna per te? non ti difende

nessun de’ tuoi? L’armi, qua l’armi: io solo

combatterò, procomberò sol io.

Dammi, o ciel, che sia foco

agl’italici petti il sangue mio. (vv. 21-40)

È in questa strofa che l’elemento agonistico ed eroico si pronuncia piú fortemente fino all’assurdo (e piú tardi, nelle Annotazioni alle canzoni del 1824, il Leopardi parlò della sua affermazione sproporzionatamente eroica e volitiva come di un compenso del desiderio). Ma deve essere chiaro che pure questa impennata, preparata dal precedente crescendo disperato, è la chiave di volta della canzone e che su di essa si appoggia e si spiega anche l’ultima parte, il canto di Simonide, che se è certamente la parte piú poetica e piú riuscita non si giustificherebbe senza la molla energica di quel movimento disperato ed eroico. Ché la parte dedicata all’esaltazione degli antichi greci, degli eroi delle Termopili e al canto di Simonide, scaturisce necessariamente (e non dunque come una digressione staccata, isolata, da considerare isolatamente) dalla carica disperata-eroica della prima parte, ritraducendone gli elementi essenziali come attraverso una maggiore distanza poetica.

L’elogio stesso delle antiche età si riconnette a quel contrasto fra natura e ragione, fra passato ricco di generose illusioni e presente decaduto e immeschinito, che non è un puro movimento di nostalgia evasiva, poiché il poeta aspira profondamente a rinnovare, con la sua azione e con la sua poesia, quell’età di entusiasmo e di attività.

E la figura di Simonide si alimenta dei desideri stessi del poeta, esprime i suoi sentimenti con un maggiore e piú alto distacco poetico in cui l’impegno diretto e piú ansioso della prima parte acquista toni piú pacati e profondi, ma inspiegabili senza la tensione propulsiva della canzone quale in quella prima parte si è piú direttamente spiegata.

Cosí nella strofa quinta la voce poetica si approfondisce e nel tessuto sempre eloquente e aulico, che è tipico di tutta la canzone, filtrano toni intimi e intimamente elegiaci che van crescendo verso gli ultimi versi:

E di lacrime sparso ambe le guance,

e il petto ansante, e vacillante il piede,

toglieasi in man la lira:

beatissimi voi,

ch’offriste il petto alle nemiche lance

per amor di costei ch’al Sol vi diede;

voi che la Grecia cole, e il mondo ammira.

Nell’armi e ne’ perigli

qual tanto amor le giovanette menti,

Qual nell’acerbo fato amor vi trasse?

Come sí lieta, o figli,

l’ora estrema vi parve, onde ridenti

correste al passo lacrimoso e duro?

Parea ch’a danza e non a morte andasse

ciascun de’ vostri, o a splendido convito:

ma v’attendea lo scuro

Tartaro, e l’onda morta;

né le spose vi foro o i figli accanto

quando su l’aspro lito

senza baci moriste e senza pianto. (vv. 81-100)

Tutta la tensione affettuosa ed elegiaca del Leopardi si riversa nel colloquio di Simonide con i giovani eroi greci e in esso vibra profondamente (pur entro il tessuto di moduli retorici che tocca punte piú amplificate ed eloquenti come nei versi: «Parea ch’a danza e non a morte andasse / ciascun de’ vostri, o a splendido convito») un affascinante incontro di luminosità e di mestizia nella rappresentazione delle «giovanette menti» che affrontano con lieto entusiasmo l’«acerbo fato», l’«ora estrema», lo «scuro Tartaro» e «l’onda morta»: espressioni queste che hanno già una mesta risonanza profonda e avviano il linguaggio leopardiano verso quelle intense designazioni della morte che avranno cosí alta espressione nelle grandi poesie piú tarde («l’ombra / della gelida morte» dell’Ultimo canto di Saffo, vv. 67-68), verso quella lirica pietà affettuosa per la scomparsa di giovani esistenze («Senza baci moriste e senza pianto») che sarà fondamentale nell’elegia di grandi canti come A Silvia o Le ricordanze.

Poi la canzone volge al finale attraverso la strofa sesta, impostata come un paragone eroico e omerico, piú sontuoso e rettorico, e l’arduo procedimento (nella settima) dell’adynaton («Prima divelte, in mar precipitando, / spente nell’imo strideran le stelle, / che la memoria e il vostro / amor trascorra o scemi», vv. 121-124) per culminare nella clausola eroico-elegiaca, severa e serena, in cui Simonide chiede che la sua «vereconda Fama» duri quanto la fama degli eroi morti per la patria.

La seconda canzone, Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze[20], scritta fra il settembre e l’ottobre del 1818, prosegue la via della lirica alta ed eloquente della prima ed è di solito apparsa alla critica come un componimento ancor piú oratorio, pesante e monotono. E certo, come vedremo, ha parti piú faticose e opache e manca della piú energica spinta volitiva e disperatamente entusiastica della canzone All’Italia.

Ma, per intenderne convenientemente il valore e il significato che essa ha nello sviluppo della poesia leopardiana, occorre riconoscere nella sua atmosfera piú grave e malinconica il prevalere di una forte impostazione di compianto, legata al ricadere della spinta piú volitiva e fiduciosa della prima canzone; spinta che cede di fronte alla piú diretta e profonda considerazione dolente e sdegnata della squallida situazione dell’Italia decaduta e inerte di fronte alla quale piú sfiduciati si pronunciano gli stanchi motivi di riscossa e di ripresa e meno sicuro si presenta quel baldanzoso ed esasperato impeto di intervento personale che costituiva la molla attiva di All’Italia.

Tutta la canzone è dominata da un profondo senso di torpore, di sopore, di grave inerzia in cui si traduce piú direttamente quella delusione storica che apre la via al piú generale pessimismo leopardiano, a quel prevalente sentimento di infelicità che precorre intuitivamente l’elaborazione piú tarda delle precise posizioni pessimistiche consolidate in forma speculativa.

Interpretata in questa direzione, la seconda canzone appare tutt’altro che priva di interesse e di una sua generale suggestione poetica. Un’onda di desolazione, di compianto, di pietà la percorre in tutta la sua costruzione e in tutte le sue strofe (anche nelle piú faticose e diluite), l’accento piú profondo e intenso si raccoglie in quelle espressioni denotanti il torpore, il sopore, il letargo, il senso di una decadenza assoluta (i «figli sonnacchiosi ed egri», i «perversi tempi», la «moribonda Italia», l’Italia «affaticata e lenta», il «guasto legnaggio», la «corrotta usanza» ecc.) che, fra l’altro, riprendono, in una storia di affinità ben significativa, espressioni dell’Alfieri e del Foscolo ortisiano.

E tutta questa gamma di espressioni negative è ben collegata alla fondamentale interpretazione storica della tetra pace della Restaurazione: quella pace che apre la canzone con una immagine assai bella e luminosa, ma che subito rivela il suo senso negativo:

Perché le nostre genti

pace sotto le bianche ali raccolga,

non fien da’ lacci sciolte

dell’antico sopor l’itale menti [...]. (vv. 1-4)

E, ripeto, sono queste espressioni dolenti e squallide che ravvivano il contesto piú faticoso e faticosamente elaborato delle prime strofe le quali troppo a lungo indugiano sull’argomento occasionale, sui sentimenti e la commozione degli artisti che dovranno eseguire il monumento dantesco (riecheggiando persino certi motivi del manifesto che un gruppo di uomini di cultura fiorentini aveva pubblicato nel luglio, chiedendo l’erezione di un monumento a Dante).

Solo nell’ultima parte, specie dalla strofa nona in poi, gli elementi di compianto che circolavano piú sparsamente nelle prime strofe si raccolgono piú unitariamente, dopo che nell’ottava il poeta ha cercato di ricollegare l’attuale decadenza degli italiani a quella sfortunata campagna di Russia che aveva stremato le energie della gioventú italiana in una guerra condotta non per la propria patria, ma per i suoi tiranni.

Con un potente movimento affettuoso, dolente e sdegnato (in cui si inserisce l’appassionato rimpianto del poeta di non aver potuto offrire la sua vita alla patria), la canzone passa, nelle strofe nona e decima, alla grandiosa, fantastica rievocazione della miseranda morte dei giovani italiani nella campagna di Russia:

Morian per le rutene

squallide piagge, ahi d’altra morte degni,

gl’itali prodi; e lor fea l’aere e il cielo

e gli uomini e le belve immensa guerra.

Cadeano a squadre a squadre

semivestiti, maceri e cruenti,

ed era letto agli egri corpi il gelo.

Allor, quando traean l’ultime pene,

membrando questa desiata madre,

diceano: oh non le nubi e non i venti,

ma ne spegnesse il ferro, e per tuo bene,

o patria nostra. Ecco da te rimoti,

quando piú bella a noi l’età sorride,

a tutto il mondo ignoti,

moriam per quella gente che t’uccide.

Di lor querela il boreal deserto

e conscie fur le sibilanti selve.

Cosí vennero al passo,

e i negletti cadaveri all’aperto

su per quello di neve orrido mare

dilaceràr le belve;

e sarà il nome degli egregi e forti

pari mai sempre ed uno

con quel de’ tardi e vili. Anime care,

bench’infinita sia vostra sciagura,

datevi pace; e questo vi conforti

che conforto nessuno

avrete in questa o nell’età futura.

In seno al vostro smisurato affanno

posate, o di costei veraci figli,

al cui supremo danno

il vostro solo è tal che s’assomigli. (vv. 139-170)

Tutto il grandioso quadro è intonato al fondamentale intreccio di squallore, pietà, sdegno, a una voce dolente di compianto che, a un certo punto, diventa voce corale e diretta dei giovani morti ed esalta il grande motivo leopardiano del contrasto fra la radiosa età della giovinezza e la condizione desolata di quella morte inutile e ignota.

E il paesaggio (che può aver risentito anche delle grandi pagine della Vita alfieriana sui deserti ghiacciati e sconfinati della Scandinavia) consuona grandiosamente, nel suo squallore, nella sua solitudine, nella sua immensità (con elementi che possono guidare verso lo stesso sentimento di una suggestiva infinità spaziale recuperata poi nell’Infinito), con lo squallore di quella morte sconsolata, con quello «smisurato affanno», con quell’«infinita [...] sciagura» in cui vibra l’esistenziale sentimento pessimistico nascente nell’animo leopardiano e che conduce, nel finale piú arduo della strofa decima (e secondo quel bisogno di una forma rara, “peregrina”, concisa e pregnante, ben intonata al proposito leopardiano di una lirica alta e aristocratica), a quei contrasti che sarebbe errato considerare solo come forme concettistiche e complicati giuochi di parole. Ché i giovani morti vengono esortati a confortarsi proprio nella mancanza di ogni conforto (perché l’eccesso della loro sventura non può conoscere nessun ulteriore accrescimento di pena) e soprattutto a riposare nel loro smisurato affanno perché cosí essi si adeguano alla miseria, senza conforto e senza limite, della loro patria sventurata: e perciò essi sono di lei «veraci figli», uguali a lei nell’uguaglianza del «supremo danno» da lei e da loro sofferto.

Poi nelle strofe undicesima e dodicesima si riaffacciano elementi di volitività nelle ansiose domande a Dante:

[...] O glorioso spirto,

dimmi: d’Italia tua morto è l’amore?

Dí: quella fiamma che t’accese, è spenta?

Dí: né piú mai rinverdirà quel mirto

ch’alleggiò per gran tempo il nostro male?

Nostre corone al suol fien tutte sparte?

Né sorgerà mai tale

che ti rassembri in qualsivoglia parte?

In eterno perimmo? e il nostro scorno

non ha verun confine? (vv. 180-189)

Ma quelle domande sono incrinate da un prevalente peso di sfiducia e la canzone si chiude con una esortazione al «guasto legnaggio»: o trarre incitamento dalla sua storia gloriosa e ridestarsi a nuova vita o abbandonare la propria terra:

[...] e se destarti

non può la luce di cotanti esempli,

che stai? levati e parti.

Non si conviene a sí corrotta usanza

questa d’animi eccelsi altrice e scola:

se di codardi è stanza,

meglio l’è rimaner vedova e sola. (vv. 194-200)

Dove in realtà prevale poeticamente la suggestiva immagine di questa migrazione in massa degli italiani e della squallida solitudine di un’Italia disabitata.


1 Il Discorso si legge in Tutte le opere, I, pp. 914-948. L’edizione critica è stata curata da O. Besomi et alii, Bellinzona, Edizioni Casagrande, 1988. È recente un’edizione commentata a cura di V. Gatto, Roma, Archivio Guido Izzi, 1992.

2 Cfr. Tutte le opere, II, pp. 3-4.

3 Si ricordi la lettera del 30 maggio 1817 al Giordani che ammetteva, contro le posizioni neoclassiche dell’amico, il diletto che può ricavarsi anche dal patetico, dalla commozione e dallo stesso inorridire di fronte a spettacoli naturali non “belli”. Tutte le opere, I, pp. 1029-1032.

4 «Gran verità, ma bisogna ponderarle bene. La ragione è nemica d’ogni grandezza: la ragione è nemica della natura: la natura è grande, la ragione è piccola. Voglio dire che un uomo tanto meno o tanto piú difficilmente sarà grande, quanto piú sarà dominato dalla ragione: ché pochi possono esser grandi (e nelle arti e nella poesia forse nessuno) se non sono dominati dalle illusioni» [14]. Tutte le opere, II, p. 10.

5 Il discorso era in realtà soprattutto una risposta alla osservazione del Di Breme sulla versione del Giaurro del Byron, a cura di Pellegrino Rossi. Il discorso non fu pubblicato e non poté cosí aprire un dibattito che sarebbe stato certo interessantissimo.

6 Tutte le opere, I, p. 932.

7 Tutte le opere, II, p. 14.

8 Tutte le opere, I, p. 915.

9 Tutte le opere, I, pp. 919-920.

10 Tutte le opere, I, pp. 938-939.

11 Tutte le opere, I, p. 939.

12 Tutte le opere, I, p. 947.

13 Cfr. K. Vossler, Leopardi, München, Musaion Verlag, 1923 (trad. it. di T. Gnoli, Napoli, Ricciardi, 1925).

14 Cfr. L. Blasucci, «Sulle due prime canzoni leopardiane», «Giornale storico della letteratura italiana», fasc. 421, 1961, pp. 39-89, ora in Id., Leopardi e i segnali dell’infinito, Bologna, il Mulino, 1985, pp. 31-80.

15 Tutte le opere, I, p. 1099.

16 Cfr. U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, introduzione di W. Binni, note di L. Felici, Milano, Garzanti, 1974 (199216), p. 156.

17 I due abbozzi si leggono in Tutte le opere, I, pp. 331-332.

18 La canzone si legge in Tutte le opere, I, pp. 3-4.

19 Cfr. F. Testi, Allo stesso [All’Altezza del Duca di Savoia], vv. 4-5, in I lirici del Seicento e dell’Arcadia, a cura di C. Calcaterra, Milano-Roma, Rizzoli, 1936, p. 326, e V. Monti, Beneficio, vv. 1, 8, 9: «Una donna di forme alte e divine [...] La sinistra alla gota: e, scisso il manto, / scopria le piaghe dell’onesto petto»; Per il congresso di Udine, vv. 9, 13-14: «Tu muta siedi; [...] Sí dimesso il volto / non porteresti e i piè dal ferro attriti»; Mascheroniana, II, v. 129 e IV, v. 54: «Carca di ferri e lacerato il manto»; «Tal che, guasta il bel corpo d’ogni parte».

20 Cfr. Tutte le opere, I, pp. 4-6.